I segni di una cattiva psicoterapia
Gli indizi che possono far dubitare della bontà di un percorso di psicoterapia.
Scrivo questo articolo perché mi capita spesso di ascoltare dai pazienti delle storie di “cattiva psicoterapia”: interpretazioni superficiali, consigli avventati e non richiesti, trattamenti che peggiorano la situazione di sofferenza della persona, fino ad arrivare ai giudizi e agli insulti espliciti da parte di colleghi psicologi.Poiché l’intervento dello psicologo si basa per lo più sul colloquio, il suo operato è piuttosto impalpabile e difficile da valutare. Per questo motivo vorrei fornire alcune linee guida per rendere chiaramente riconoscibili i casi di “cattiva psicoterapia”.
Nel fare questo mi atterrò da un lato ai criteri del Codice Deontologico degli Psicologi, dall’altro utilizzerò dei criteri personali che sono, ovviamente, soggettivi e discutibili e che ho maturato in base alla mia personale esperienza professionale.
NOTA IMPORTATE: talvolta il paziente può sviluppare un avversione per il proprio psicoterapeuta. Questo però non significa automaticamente che lo psicoterapeuta sia incompetente o che la terapia non stia proseguendo nella giusta direzione. Talvolta infatti il paziente rivive col proprio psicoterapeuta i sentimenti negativi che aveva da bambino, specie in relazione con i propri genitori. In questi casi si parla di transfert, concetto introdotto addirittura da Sigmund Freud, e che consiste nell’agire con lo psicoterapeuta quegli stessi sentimenti di ostilità (ma talvolta anche di amore) che la persona ha sviluppato con i propri genitori da piccolo. Tali sentimenti sono spesso ciò che ha condotto il paziente in terapia e rappresentano ciò che il paziente ha bisogno di cambiare per stare meglio. In questi casi, quindi, non bisogna abbandonare prematuramente il percorso di psicoterapia ma affrontare il “trasfert” assieme allo psicoterapeuta in modo da trarne i relativi apprendimenti. E’ bene essere attenti a non scambiare un comune “transfert” per un segno di “cattiva psicoterapia”.
Codice Deontologico degli Psicologi italiani
Il Codice Deontologico è quel testo che raccoglie le regole comportamentali che gli psicologi stessi si sono date. Queste regole sono state pensate con lo scopo di salvaguardare la dignità e la salute delle persone che sono trattate dagli psicologi.
Gli psicologi, se vogliono appartenere a questa categoria professionale, si impegnano a seguire tali regole, pena provvedimenti di diversa intensità, che vanno dall’ammonizione, alla sospensione, fino alla radiazione dall’albo professionale, caso in cui lo psicologo non potrà più esercitare la professione.
Le regole del Codice Deontologico degli Psicologi vincolano anche la maggioranza degli Psicoterapeuti poiché in Italia la maggioranza degli psicoterapeuti è di formazione psicologica (si legga il mio articolo: Qual è la differenza tra uno Psicologo e uno Psicoterapeuta?).
In modo generale il Codice Deontologico sostiene (articolo 3) che lo psicologo deve “evitare l’uso non appropriato della propria influenza”, ossia evitare tutti i casi in cui la propria influenza non sia finalizzata a promuovere il “benessere psicologico dell’individuo”.
Un altro importante regola del Codice Deontologico (articolo 4) è che “lo psicologo rispetta la dignità, il diritto alla riservatezza, all’autodeterminazione ed all’autonomia di coloro che si avvalgono delle sue prestazioni”.
Altre importanti regole del Codice Deontologico sono quelle relative all’obbligo di formazione continua (articolo 5), al segreto professionale (articolo 10), alle commistioni tra vita professionale e vita privata dello psicologo (articolo 28).
Da queste e altre regole del Codice Deontologico, ne derivano i seguenti segni di “cattiva psicoterapia”:
- Lo psicoterapeuta usa la propria influenza per modificare le convinzioni politiche del paziente.
Esempio: lo psicoterapeuta si focalizza sulle imminenti elezioni, discute con il paziente dei diversi candidati e politici e esprime i propri convincimenti politici dimenticando i temi che hanno portato in terapia la persona.
- Lo psicoterapeuta cerca di modificare il credo religioso del paziente.
Esempio: lo psicoterapeuta ateo mette in discussione il credo cattolico del paziente.
- Il paziente è mantenuto in una situazione di dipendenza.
Esempio: il percorso terapeutico non volge verso il raggiungimento di un obiettivo condiviso, ma procede “ad oltranza” senza una direzione condivisa.
Esempio: lo psicoterapeuta soddisfa i bisogni emotivi e affettivi del paziente lodandolo e sostenendolo, ma non lo aiuta a sviluppare le capacità per soddisfare tali bisogni autonomamente al di fuori della terapia.
- Lo psicoterapeuta cerca di imporre i propri valori sul paziente.
Esempio: lo psicoterapeuta esprime i propri personali valori in tema di famiglia e di orientamento sessuale come se fossero gli unici giusti e condivisibili.
Esempio: lo psicoterapeuta colpevolizza il paziente se non condivide i propri valori.
- Lo psicoterapeuta non rispetta la privacy del paziente.
Esempio: lo psicoterapeuta divulga ad altri che ha in trattamento una determinata persona senza che ciò abbia una funzione terapeutica (diverso è il caso in cui lo psicoterapeuta condivide alcune informazioni con dei colleghi al fine di ottimizzare il proprio intervento, e comunque sempre mantenendo, per quanto possibile, l’anonimato della persona).
Esempio: lo psicoterapeuta comunica al paziente l’identità di altri pazienti.
Esempio: lo psicoterapeuta comunica al paziente informazioni di carattere personale che gli sono state fornite da altri pazienti.
- Lo psicoterapeuta opera delle discriminazioni in base alla religione, all’etnia, alla nazionalità, all’estrazione sociale, allo stato socio-economico, al sesso, all’orientamento sessuale, o alla condizione di disabilità del paziente.
Esempio: lo psicoterapeuta decide di non prendere in trattamento una persona, non perché non sia in grado di aiutarla ad affrontare la propria problematica, ma perché appartiene ad una etnia diversa dalla propria.
- Lo psicoterapeuta non è preparato e aggiornato professionalmente.
Esempio: lo psicoterapeuta prende in carico un paziente pur non essendo aggiornato circa le tecniche comprovate empiricamente per il trattamento del disturbo che la persona presenta (ad esempio l’EMDR o la terapia cognitivo-comportamentale focalizzata sul trauma CBT-T in caso di Disturbo da Stress Post Traumatico).
- Lo psicoterapeuta non deve mischiare vita professionale e vita privata se ciò può interferire con l’attività professionale.
Esempio: lo psicoterapeuta effettua un percorso di psicoterapia con il proprio dentista.
Esempio: lo psicoterapeuta invita il paziente a incontrarlo in contesti diversi dalla psicoterapia, come ad esempio al teatro o al cinema.
- Lo psicoterapeuta non deve “effettuare interventi di psicoterapia con persone con le quali ha intrattenuto o intrattiene relazioni significative di natura personale, in particolare di natura affettivo-sentimentale e/o sessuale”.
Esempio: lo psicoterapeuta effettua un percorso di psicoterapia con una persona con cui è legato da una profonda amicizia o da un legame sentimentale.
Esempio: lo psicoterapeuta e la persona in terapia instaurano un rapporto sentimentale nel corso della psicoterapia.
Esempio: lo psicoterapeuta cerca di instaurare una relazione affettiva o sessuale con il paziente.
Il mio punto di vista
Riporto di seguito alcune considerazioni e segni di “cattiva psicoterapia” basati sulla mia esperienza professionale. Le riflessioni che seguono rappresentano dunque opinioni personali e, in quanto tali, possono essere più o meno condivise.
Segni di “cattiva psicoterapia” secondo la mia opinione personale:
- Lo psicoterapeuta effettua interventi di psicoterapia individuale con persone che hanno tra loro importanti rapporti di natura personale.
Spesso ho sentito di colleghi che vedono in terapia individualmente due coniugi, oppure madre e figlio, o due fratelli. Non condivido l’operato di questi colleghi perché così facendo si riduce la possibilità di una o di entrambe le persone di esprimersi liberamente e autenticamente.
Le persone, infatti, sapendo che lo specialista vede anche il proprio caro, possono essere restie ad aprirsi completamente per una pluralità di ragioni: possono temere che le informazioni che raccontano allo psicoterapeuta giungano mediante il terapeuta stesso (magari attraverso il suo linguaggio non verbale) all’altra persona. Oppure possono temere che lo psicoterapeuta “si sia alleato” con l’altra persona e di conseguenza rimanere sulla difensiva. Oppure possono trattare lo psicoterapeuta come un giudice cercando di “portarlo dalla propria parte” mostrando solo gli aspetti positivi di sé. Oppure possono temere di essere giudicate dallo psicoterapeuta se “parlano male” dell’altra persona, perché il terapeuta comunque vedrà l’altra persona e potrà non essere d’accordo con i giudizi espressi. Oppure possono dire certe cose allo psicoterapeuta con la speranza segreta di farle sapere all’altra persona. E così via. In ogni caso il rapporto con lo psicoterapeuta rischia fortemente di non essere più naturale e fluido.
Prendere in psicoterapia due persone legate da un importante rapporto di carattere personale significa, a mio avviso, mettere a rischio la possibilità di apertura autentica del paziente e quindi l’esistenza stessa della situazione psicoterapeutica che si basa sull’autenticità del rapporto terapeuta-paziente.
Alcuni colleghi giustificano la psicoterapia individuale con due persone legate da un forte legame personale con il fatto che in tal modo hanno la possibilità di raccogliere più velocemente una maggiore quantità di informazioni riguardanti le persone. Anche se ciò fosse vero, questo avverrebbe al costo di corrompere il rapporto di apertura con il terapeuta. Quello che di norma avviene in queste situazioni, infatti, è che una delle due persone finisce per sentirsi inibita ad aprirsi con il terapeuta.
La psicoterapia è una situazione molto particolare e difficile, che richiede impegno, energie, tempo e denaro. Meglio non rischiare di complicare ulteriormente la situazione psicoterapeutica perché da “difficile” potrebbe diventare “impossibile”. In Italia vi sono molti psicoterapeuti competenti: meglio rivolgersi ad altri.
Esempio: lo psicoterapeuta ha in terapia individuale contemporaneamente (in giorni diversi) la madre e suo figlio, oppure una persona e il suo migliore amico.
- Lo psicoterapeuta dà consigli avventati.
Mi capita spesso, e ne rimango sempre sconcertato, di udire storie da parte di persone che hanno ricevuto consigli sconsiderati da parte di colleghi psicologi, magari al loro primo (e per fortuna spesso unico) incontro.
Esempio: lo psicoterapeuta durante il primo incontro fornisce consigli al paziente circa la sua vita di coppia, il lavoro, l’assunzione di psicofarmaci, l’uscita dalla casa dei genitori: “Lascia tuo marito e vai via con i figli”, oppure “Hai bisogno di consultare uno psichiatra per cominciare ad assumere una terapia psicofarmacologica”. Se vi capita di ricevere un consiglio avventato da parte di uno psicoterapeuta al primo incontro, il mio consiglio è di scappare il più presto possibile!
Esempio: lo psicoterapeuta fornisce frequenti consigli non richiesti, agendo come se avesse tutte le risposte e conoscesse tutte le soluzioni.
- Lo psicoterapeuta non è in grado di spiegare in che modo il processo di psicoterapia aiuterà la persona a raggiungere i proprio obiettivi.
Vi sono degli psicoterapeuti che, troppo legati ad una specifica tecnica, si limitano ad applicarla senza distinguere ciò che sanno fare da ciò che è utile.
Esempio: lo psicoterapeuta, esperto di training autogeno, applica questa medesima tecnica a tutti i suoi pazienti a prescindere dalla problematica che presentano.
- Lo psicoterapeuta critica e colpevolizza il paziente.
Affinché le persone cambino hanno bisogno di esplorarsi e comprendere le ragioni profonde dei propri blocchi, dei propri conflitti e comportamenti disfunzionali. A questo scopo è fondamentale lo spazio di non-giudizio che lo psicoterapeuta capace riesce a creare durante le sedute.
Esempio: lo psicoterapeuta critica aspramente il paziente che non ha fatto i “compiti a casa”.
Esempio: lo psicoterapeuta colpevolizza il paziente per la sua tossicodipendenza.
- Lo psicoterapeuta biasima la famiglia, gli amici o il partner del paziente.
Una delle funzioni dello psicoterapeuta è funzionare da “specchio limpido” per il paziente, in modo che questi possa cogliere degli aspetti di sé di cui non è normalmente consapevole. Rispecchiando il paziente lo psicoterapeuta cerca di aiutarlo a divenire maggiormente consapevole dei propri sentimenti, dei propri meccanismi inconsapevoli e delle proprie responsabilità. Nel fare questo può dover sottolineare anche le responsabilità delle persone vicine al paziente, ma sempre con lo scopo di permettere al paziente di cogliere a propria volta le proprie responsabilità. E’ invece dannoso far passare il paziente da vittima attribuendo completamente agli altri la responsabilità delle sue sofferenze. In ogni caso non è utile per la sua evoluzione.
Esempio: lo psicoterapeuta attribuisce le “colpe” del fallimento matrimoniale interamente al partner del paziente.
Esempio: lo psicoterapeuta sostiene la visione vittimistica che il paziente ha di se stesso sottolineando solo le mancanze dei genitori senza dare rilievo alle risorse e alle potenzialità della persona.
- Lo psicoterapeuta parla eccessivamente (di sé) senza che ciò abbia uno scopo terapeutico.
Talvolta lo psicoterapeuta rende note al paziente alcune informazioni su di sé. Dal momento che la situazione tipica di una terapia prevede che l’attenzione sia focalizzata sul paziente e i suoi bisogni, quando il terapeuta parla di sé lo deve fare unicamente se ciò aiuta il paziente a raggiungere i propri obiettivi. “L’apertura di sé” è una tecnica terapeutica ben precisa di cui non si deve abusare. Lo psicoterapeuta può essere amichevole ma non è un amico!
Esempio: lo psicoterapeuta parla delle proprie relazioni affettive senza che ciò sia pertinente con la terapia.
Esempio: lo psicoterapeuta parla troppo spesso occupando quasi tutto il tempo della terapia e lasciando poco spazio al paziente per esprimersi.
- Lo psicoterapeuta non parla per niente.
Esempio: il paziente parla per tutta la seduta e lo psicoterapeuta non gli fornisce alcun feed-back.
- Lo psicoterapeuta non ha effettuato una terapia personale.
Un terapeuta non ha solo bisogno di conoscere determinate teorie sull’uomo e determinate tecniche di intervento psicoterapeutico. Ha bisogno anche di saper mantenere il proprio equilibrio interiore e la propria lucidità allorché il paziente lo attacca personalmente, oppure porta dei contenuti molto drammatici in terapia, oppure quando lo psicoterapeuta ha dei problemi personali (lutti, incidenti, etc.) o è molto stanco. A questo scopo è, per me, essenziale che abbia compiuto un buon lavoro di psicoterapia su di sé.
Esempio: lo psicoterapeuta svela al paziente di non aver completato un percorso di psicoterapia personale.
- Lo psicoterapeuta non ricorda importanti informazioni del paziente.
A tutti capita di avere delle dimenticanze, ma se uno psicoterapeuta stabilmente non ricorda dei fatti importanti narrati durante le sedute dal paziente, forse vuol dire che ha troppi pazienti.
Esempio: lo psicoterapeuta non ricorda il nome del paziente.
- Lo psicoterapeuta non presta attenzione al paziente.
L’attenzione dello psicoterapeuta nei confronti del paziente è la prima e fondamentale condizione di una psicoterapia.
Esempio: lo psicoterapeuta controlla frequentemente il proprio cellulare durante la seduta.
Esempio: lo psicoterapeuta risponde al telefono durante la seduta.
Esempio: lo psicoterapeuta regolarmente si distrae e mostra di non capire cosa ha detto il paziente.
Che fare se si scorgono uno o più segni di “cattiva psicoterapia”
Prima di fuggire a gambe levate occorre porsi la questione se la sensazione di sgradevolezza che si sta vivendo in terapia non abbia a che fare con i propri meccanismi problematici ossia, come dicevo, sia una questione di ”transfert”. A questo scopo, è utile affrontare le proprie preoccupazioni direttamente con il proprio terapeuta.
Vi è inoltre la possibilità che lo psicoterapeuta abbia fatto un errore. In questo caso è opportuno parlarne con lo psicoterapeuta: talvolta un errore può essere riparato se la persona che lo ha commesso (in questo caso il terapeuta) è capace di assumersene la responsabilità e di rassicurare l’altro sul fatto che tale errore non verrà nuovamente commesso.
Uno psicoterapeuta di solito è formato per accogliere i timori e i dubbi del paziente circa il percorso terapeutico e sarà disposto ad affrontare l’argomento ascoltando il punto di vista del paziente e fornendo risposte ragionevoli e convincenti.
Se ciò non dovesse essere il caso, se lo psicoterapeuta non fosse disponibile ad affrontare le preoccupazioni del paziente circa la bontà della terapia, potrebbe essere utile incontrare un altro psicoterapeuta per chiedere un secondo parere.
Se dopo aver parlato col proprio psicoterapeuta, o aver ricevuto un secondo parere, diviene chiaro che si è di fronte ad un caso di “cattiva psicoterapia” è opportuno chiudere il percorso terapeutico e mettersi alla ricerca dello psicoterapeuta giusto per sé.
Il mio consiglio è di parlare chiaro col proprio psicoterapeuta e dirgli chiaramente che non si vuole continuare la terapia con lui e i motivi per cui si è presi una simile decisione. Nel fare questo è opportuno ricordare che lo psicoterapeuta è un professionista che ha seguito, si spera, un percorso di psicoterapia personale e che, in ogni caso, è stato addestrato a gestire i propri sentimenti negativi auto-sostenendosi nel caso si senta toccato dalle parole del paziente. Non si deve quindi temere di ferire lo psicoterapeuta, anzi esprimersi in modo autentico spesso rappresenterà un occasione di crescita sia per il paziente sia per lo specialista.
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