Adriano Stefani Psicologo

I “Giochi psicologici”

Nelle relazioni interpersonali, gli esseri umani tendono a mettere in atto sempre le stesse interazioni problematiche seguendo degli schemi ben precisi. Perché lo facciamo? E cosa ci guadagniamo?

I “Giochi psicologici”

All’interno dell’approccio psicologico dell’Analisi Transazionale (da ora in poi AT) si fa grande uso del concetto di “gioco psicologico”. Con questo termine non ci si riferisce a qualcosa di piacevole, quanto piuttosto a quel tipo di interazione che tipicamente e prevedibilmente conduce a conflitti e confusione. Insomma qualcosa da evitare.
 
Il termine “gioco” viene utilizzato in AT in modo ironico, al fine di evidenziare quelle modalità di interazione distruttive che, se non viste, possono ripetersi senza fine.
 
Lo scopo di questo articolo è quello di descrive i “giochi psicologici” che utilizziamo quotidianamente con l’intento di comprenderli, evitarli e prepararci a fare qualcosa di diverso e più costruttivo.
 
 
Solo un po’ di storia
Il fondatore della AT, Eric Berne, diede vita alla teoria AT scrivendo a partire dal 1956 degli articoli molto interessanti, scritti in un linguaggio per “addetti ai lavori” e pubblicati all’interno di riviste scientifiche di limitata diffusione. L’AT cominciò ad essere conosciuta tra gli specialisti della salute mentale molto gradualmente.
 
Eric Berne continuò la propria attività di teorico AT pubblicando altri articoli e libri, ma fu solo nel 1964 con il suo A che gioco giochiamoche Berne conobbe il successo e la grande divulgazione vendendo milioni di copie. Questo libro, più che altro un libricino molto denso e dal piglio colloquiale e divertente, ha suscitato l’interesse non solo degli psicologi e degli psichiatri, ma anche degli intellettuali, degli artisti e dell’uomo della strada e, a tutt’oggi, continua ad essere un bestseller.

Dall’uscita di questo libro, il concetto di “gioco psicologico” si è progressivamente diffuso non solo all’interno dei circoli della salute mentale, ma anche tra gli specialisti che si occupano di gestione aziendale, in ambito scolastico e in tutti i contesti dove sia utile migliorare la qualità delle interazioni umane.
 
 
“Carezze”
Berne ha notato che i bambini che hanno ricevuto poco contatto fisico da parte degli adulti, che sono stati poco toccati e coccolati, spesso sviluppano problemi fisici e psicologici. Anche gli adulti hanno un grande bisogno di contatto fisico ma, a differenza dei bambini, quando non possono riceverlo, sono capaci di soddisfare il bisogno di contatto fisico utilizzando al suo posto degli scambi emotivi con altre persone, nel linguaggio AT: delle “carezze”.
 
Si ha una “carezza” ogni volta che ha luogo una esperienza di riconoscimento di una persona da parte di un’altra: un saluto, un elogio, un sorriso, un consiglio, etc..
 
Le “carezze” possono essere positive o negative. Ad esempio, gli applausi e le recensioni positive di uno spettacolo rappresentano delle “carezze” positive per un attore. La frecciatina di un coniuge è invece una “carezza” negativa.
 
 
Perché “giochiamo”
Noi esseri umani, specie se deprivati di contatto fisico, di amore e di attenzione da piccoli, abbiamo un tale bisogno di “carezze” che talvolta preferiamo ricevere “carezze negative” piuttosto che nessuna “carezza”. Per questo motivo, se non siamo in grado di utilizzare strategie più costruttive, siamo disposti a mettere in atto (inconsapevolmente) interazioni negative – i “giochi psicologici” – per nutrire il nostro bisogno di “carezze”. Come dire, una “carezza” negativa è meglio di niente!
 
Di conseguenza, le persone si ritrovano coinvolte nelle stesse irritanti, dolorose o deludenti interazioni, giocando spesso gli stessi “giochi psicologici”, sovente  senza rendersi conto del proprio apporto.  E questo perché il “gioco psicologico” rappresenta l’unica modalità che si conosce per nutrire il proprio bisogno di contatto intimo.
 
 
Cosa sono i “giochi psicologici”
Berne li definisce così: “Un gioco è una serie di transazioni ulteriori che conducono ad un tornaconto ben definito”.
 
Traduco: un “gioco psicologico” è un’interazione tra persone che utilizzano fra loro messaggi poco chiari e che, dopo una serie di scambi ben definiti e prevedibili, finiscono per provare confusione e emozioni negative.
 
Naturalmente i “giochi psicologici” sono utilizzati in modo automatico e senza che le persone si rendano conto della futilità della cosa … Altrimenti cercherebbero di soddisfare il proprio bisogno di intimità in modi più costruttivi!
 
Facciamo un esempio. Due amici, Claudio e Roberto, si rincontrano dopo un po' di tempo e si aggiornano reciprocamente delle proprie novità. Roberto sta vivendo con impotenza una serie di problemi sul lavoro, racconta che i suoi colleghi lo stanno “mobbizzando”, riservandogli sistematicamente i lavori più frustranti.
 
Claudio: “Mi dispiace di sentire questo!”.
 
Roberto: “Già, non so che fare”.
 
Claudio: “Perché non ti cerchi un nuovo posto di lavoro?”.
 
Roberto: “Magari”, ma purtroppo oggi c’è un altissimo tasso di disoccupazione!”.
 
Claudio: “Beh, allora rivolgiti ad un centro per l’impiego!”.
 
Roberto: “Potrei provarci, ma con le mie competenze e alla mia età sicuramente non hanno nulla per me”.
 
Claudio: “Allora ti aiuto io: vieni a lavorare nella mia azienda!”.
 
Roberto: “Ti ringrazio moltissimo! So che lo faresti col cuore, però non voglio l’aiuto di nessuno”.
 
Claudio: “D'accordo, ma allora perché non ne vai a parlare con il responsabile delle risorse umane?”.
 
Roberto: “E’ un’idea, ma in fondo non è il caso, anche lui sembra essere maldisposto nei miei confronti”.
 
Claudio: “Perché non vai a parlarne col capo ufficio, allora?”.
 
Roberto comincia ad innervosirsi ed alza leggermente la voce: “Senti forse non ti è chiara la situazione: ce l'hanno tutti con me! Chiaro?”.
 
Claudio, che non si aspettava questa reazione ostile, si mette un sulla difensiva: “D'accordo, cercavo solo di aiutarti ...”.
 
Roberto, ora completamente innervosito: “E certo, per te è facile con la tua attività in proprio!”.
 
Claudio, sentendosi accusato: “Scusa, dai, non fare così”.
 
Entrambi a questo punto sono confusi e provano emozioni negative a cui non sanno dare senso con chiarezza.
 
In realtà entrambi erano pronti a giocare il gioco “Perché non ... Sì, ma” e, quando si sono incontrati e inconsciamente hanno riconosciuto tale desiderio di giocare anche nell’altro, hanno giocato la loro partita che prevedibilmente li avrebbe portati a questo infelice esito finale.
 
 
Il triangolo drammatico
Uno psicologo americano, Stephen Karpman, ha ideato il triangolo drammatico, uno strumento utile per descrivere con chiarezza i “giochi psicologici”.
 
Ogni volta che le persone prendono parte ad un “gioco psicologico” assumono uno dei tre ruoli del triangolo drammatico di Karpman: Vittima, Persecutore o Salvatore. Questi ruoli sono assunti inconsapevolmente e implicano il fatto che non si stiano utilizzando pienamente le proprie capacità Adulte.
 


Il triangolo drammatico di Karpman

 

  • Vittima: “Povero me!”. In questo ruolo la persona svaluta le proprie capacità di pensare, di sentire e di agire per risolvere i propri problemi. Agli altri appare incapace di prendere decisioni e di agire.

    In realtà, sotto sotto, la persona assume il ruolo della Vittima perché così facendo riesce ad ottenere l’attenzione di un Salvatore o di un Persecutore. In questo modo può dipendere da loro senza doversi assumere la responsabilità di sé e dei propri problemi.

    I vissuti tipici della Vittima sono il sentirsi incapace, accusato e senza speranza: “Povero me, non ce la farò mai! Io non vado bene, mentre gli altri sono tutti meglio di me”.

     
  • Persecutore: “E’ colpa tua!”. In questo ruolo la persona svaluta le capacità dell’altro ritenendolo inferiore, incapace e sbagliato. Al contempo ritiene se stessa superiore e più capace. Con tali premesse si comporta in modo critico e controllante attaccando e maltrattando gli altri.

    In realtà comportandosi in questo modo, il Persecutore sposta sistematicamente la propria attenzione sull’altro ed evita di confrontarsi con le proprie insicurezze e paure.

    I vissuti tipici del Persecutore sono la rabbia e l’insofferenza: “E’ colpa tua, tu sei sbagliato, io invece la so più lunga di te, quindi farai ciò che ti dico io!”.

     
  • Salvatore: “Ci penso io!”. In questo ruolo la persona svaluta le capacità dell’altro ritenendolo incapace di risolvere i propri problemi da sé, mentre al contempo ritiene se stessa meglio attrezzata per farlo. E’ molto altruista, si occupa attivamente dei problemi degli altri spesso mettendo i bisogni dell’altro al primo posto.

    In realtà questo le permette di sentirsi moralmente superiore e di evitare di occuparsi dei propri sentimenti e bisogni.

    I vissuti tipici del Salvatore sono la soddisfazione quando riesce ad essere d’aiuto e il senso di colpa quando non vi riesce: “Ti aiuto io, tu hai bisogno del mio aiuto perché non sei capace di prenderti cura dei tuoi bisogni, quindi ti salverò io!”.

 
Durante un “gioco psicologico” le persone cambiano il proprio ruolo all’interno del triangolo drammatico una o più volte e alla fine tutti i “giocatori” finiscono nel ruolo di Vittima, con un vissuto di frustrazione, di impotenza e di mancanza di speranza.
 
Vediamo cosa è successo nell’esempio precedente con Claudio e Roberto in termini di triangolo drammatico.
 
Allorché si sono incontrati Roberto assume il ruolo di Vittima (“Non so che fare”), mentre Claudio assume il ruolo di Salvatore dando immediatamente consigli non richiesti (“Perché non ti cerchi un nuovo posto di lavoro?”).
 
Ad un certo punto, dopo svariati consigli non richiesti, ha luogo uno scambio di ruolo. Roberto “si scalda” e dice: “Senti forse non ti è chiara la situazione: ce l'hanno tutti con me! Chiaro?” . In questo momento Roberto passa dal ruolo di Vittima a quello di Persecutore, ruolo da cui comincia a biasimare l’amico (“E certo, per te è facile …”).
 
 


Lo scambio di ruoli


 
Allo stesso tempo, Claudio passa dal Salvatore alla Vittima (“Scusa, dai, non parliamone più”).
 
Entrambi alla fine escono dall’interazione amareggiati e confusi. Ed entrambi, nel profondo del cuore, si sentono delle Vittime.
 
 
Tipi di “giochi psicologici”
Eric Berne ha descritto originariamente qualche decina di “giochi psicologici” ai quali, in seguito, diversi autori ne hanno aggiunti degli altri.
 
Qui di seguito intendo descrivere alcuni dei “giochi” maggiormente diffusi. Farò questo secondo la mia comprensione di essi e secondo gli sviluppi teorici che hanno avuto luogo dalla nascita del concetto ad oggi.
 

  • “Perché non … Sì, ma”.
    Questo è stato il primo “gioco” descritto da Berne e quindi, per motivi storici, inizierò da qui.

    E’ un “gioco” molto diffuso in cui c’è una persona nel ruolo di Vittima ed una o più nel ruolo di Salvatore.

    La Vittima presenta un problema e il Salvatore propone diverse soluzioni, tutte bocciate per questo o quel motivo dalla Vittima che risponde ogni volta con un “Si, ma”. Una Vittima che sa il fatto proprio può andare avanti per moltissimo tempo prima che il “gioco” subisca una svolta.

    In genere i Salvatori finiscono presto o tardi per cambiare ruolo e per finire nella Vittima (“Mi dispiace, cercavo solo di aiutarti!”) o nel Persecutore (“Ora mi hai stufato, pigro inetto!”). Anche la Vittima può cambiare di ruolo e, eventualmente, passare nel ruolo di Persecutore (come nel nostro precedente esempio di Roberto e Claudio: “E certo, per te è facile con la tua attività in proprio!”).

    Ovviamente la Vittima non gioca per ottenere davvero una soluzione al proprio problema, quanto piuttosto per convincere anche gli altri e dimostrare a se stessa che il proprio problema è irresolubile e mantenersi nel ruolo di Vittima indefinitamente.

    Se vi accorgete di essere invitati a ad una partita di “Perché non … Sì, ma” nel ruolo di Salvatore e non volete parteciparvi, il consiglio è di empatizzare e di stimolare l’altra persona a ragionare con la propria testa: “E’ un problema difficile, mi dispiace. Tu che cosa pensi di fare?”.

     
  • “Gamba di legno”.
    La premessa di questo “gioco” è che una persona soffra a causa di un determinato disagio, come ad esempio: una problematica fisica, una infanzia difficile, una patologia psichiatrica, una dipendenza da sostanze, etc..

    La persona utilizza il proprio disagio per Vittimizzarsi, sfruttando il fatto di avere un limite come scusa per giustificare la propria mancanza di motivazione nell’affrontare i propri problemi: “Vorrei avere una relazione di coppia, ma provengo da una famiglia di genitori separati”, “Per forza devo fumare, sono un tabagista!”, “Che cosa pretendete da uno che ha una gamba di legno?”.

    La Vittima allora incontra un Salvatore che vorrebbe tanto essere d’aiuto ma, non cogliendo l’auto-svalutazione che la Vittima fa di sé, finisce per cadere nel tranello e per credere alla tesi della Vittima: “Sì, hai proprio ragione, la tua gamba di legno è un ostacolo insormontabile!”. A questo punto il Salvatore stesso comincia a sentirsi impotente, un “salvatore fallito” e scivola anch’egli nel ruolo di Vittima.

    Anche in questo caso la Vittima non gioca per cercare di risolvere davvero un proprio problema ma, piuttosto, per cercare giustificazioni al proprio non agire.

    Ovviamente, se la persona soffre di un disagio che pone dei limiti reali al proprio agire, avrà bisogno di accettare che alcune difficoltà della sua vita non possono essere cambiate. Ma se la persona usa i propri disagi per impedirsi di tentare di migliorare la propria condizione, i suoi disagi allora diventano una scusa per non affrontare le proprie paure.

    Avete una vostra personale “gamba di legno” che utilizzate per auto-bloccarvi? Se è così – e siete così consapevoli da ammetterlo – il consiglio è di cambiare la domanda da: “Che cosa pretendete da uno che ha una gamba di legno?” a “Che cosa pretendo da me stesso?”. Occorre prendersi del tempo ed essere onesti nel rispondersi.

     
  • “Guarda che mi hai fatto fare”.
    In questo “gioco” il personaggio principale è una persona che si sta inconsapevolmente auto-criticando, in altre parole ce l’ha con se stessa ma non ne è consapevole, quello che vive a livello cosciente è un senso di irritazione. Non appena altre persone attorno a lei fanno o dicono qualcosa, questi prende la palla al balzo per compiere un errore e biasimare gli altri scaricando su di loro la responsabilità dell’errore.

    Ad esempio, un padre torna a casa frustrato e stanco dopo una giornata di lavoro e comincia a preparare controvoglia la cena. Un figlio entra in cucina salutandolo e lui “fa cadere” in terra un piatto. Finalmente qualcuno con cui prendersela: “Guarda cosa mi hai fatto fare!”.

    O il capoufficio che chiede consigli ai propri sottoposti, ma in realtà non vede l’ora di biasimarli non appena i consigli si dimostrano non  funzionare: “Guardate cosa mi avete fatto fare!”.

    Il giocatore principale passa in sequenza dalla posizione iniziale di Vittima (“Non sono capace”), a quella di Persecutore (“E’ tutta colpa tua”), a quella finale di Vittima (“Nessuno mi aiuta mai”).

    Se vi accorgete che qualcuno vicino a voi sta cercando di giocare a questo “gioco”, cercate di non farvi coinvolgere o, se proprio vi tira in ballo chiedendo dei consigli, rifiutate di fornirne a meno che siate investiti del potere di agire.

     
  • “Prendimi a calci”.
    In questo “gioco” c’è una persona che si comporta in modo irritante. Ad esempio, arriva in ritardo, non risponde al telefono o “si dimentica” di richiamare.

    La persona, in realtà, sotto sotto gode dell’irritazione altrui perché questo le dà un senso di potere e di controllo. In tal senso esercita un ruolo di Persecutore sugli altri.

    Quando presto o tardi – ciò è pressoché inevitabile – qualcuno reagisce con rabbia attaccandola verbalmente, la persona può risentirsi, chiedersi: “Perché queste cose capitano sempre a me?” e sentirsi una Vittima.

    Se vi rendete conto che qualcuno vi sta offrendo il “gancio” per giocare a questo “gioco”, non cadeteci: non offrite a vostra volta un “anello”. Non innervositevi, né attaccate il giocatore. Piuttosto, affrontate apertamente il problema, indicate al giocatore quelle che per voi rappresentano delle provocazioni e affermate con chiarezza se e in che misura volete continuare a fare delle cose con lui.

     
  • “Stupido”.
    In questo gioco una persona intelligente, sembra compiere intenzionalmente degli errori comportandosi in modo sbadato: “Ops! Mi sono dimenticato di telefonarti, di restituirti il libro, che oggi era il giorno della consegna del lavoro, di comprare il regalo di compleanno a mia madre, etc.”.

    Fino a che un’altra persona passa nel ruolo di Persecutore e esplode: “Ma certo che sei proprio stupido!”.

    In realtà lo scopo del primo giocatore è quello di mantenersi nel ruolo di Vittima e di evitare le proprie responsabilità – prendere delle decisioni o fare le cose per bene “Perché in fondo sono uno stupido”.

 
 
Come smettere di “giocare”
Nonostante in questo articolo abbia trattato lungamente delle interazioni distruttive tra gli esseri umani, c’è una buona notizia: è possibile tenersi lontani dai “giochi psicologici”.
 
Tutto inizia con la consapevolezza. Se ci si accorge in anticipo del “gioco” è possibile semplicemente non prenderne parte. Se invece ci si sta già muovendo tra i ruoli del triangolo drammatico, accorgersi del “gioco” permette di uscirne fuori e dare inizio ad una comunicazione chiara e costruttiva.
 
Per facilitare questo primo momento fondamentale di consapevolezza, è utile conoscere in anticipo il ruolo che abitualmente tendiamo ad assumere. A questo scopo occorre riflettere sui propri comportamenti e atteggiamenti consueti, rispondendo  a domande del tipo: la maggior parte del tempo mi sento più Vittima, Persecutore o Salvatore? Qual è il mio atteggiamento psicologico prevalente: “Povero me!”, “E' colpa tua!” o “Ci penso io!”? Come mi vedono gli altri? Mi cercano per ricevere aiuto? Si sentono costantemente criticati da me? Mi danno aiuto e consigli non richiesti?

C’è da dire che da soli si può essere facilmente fuorviati dalle proprie auto-illusioni, dalle proprie abitudini mentali, dal costante tentativo di mantenere una visione di sé positiva. Per questi motivi bisogna essere particolarmente onesti nel riflettere su di sé. Ovviamente è più facile e efficiente giungere alla conoscenza dei propri ruoli e “giochi” preferiti mediante una approfondita psicoterapia Analitico Transazionale.
 
 
Consigli
Una volta individuato il ruolo che si indossa più frequentemente, è più facile “mantenere la guardia alta”, cogliere per tempo l’innescarsi dei giochi e fare qualcosa di diverso.

Se il ruolo abituale è quello di Vittima, è utile:

  • Stabilire cosa si vuole e passare all’azione. A questo scopo, occorre divenire i “salvatori di se stessi” assumendo una mentalità da “problem solver” e chiedersi: “Di cosa ho realmente bisogno? Cosa voglio? Quali sono i passi per raggiungere ciò che voglio?”. Una volta stabiliti i propri obiettivi non bisogna dimenticarsi di passare all’azione anche se la tentazione di procrastinare può essere forte.
  • Accettare l’aiuto altrui, ma comunque fare la propria parte. Se si riceve dell’aiuto (magari da un Salvatore), va bene riceverlo, ma poi occorre saper proseguire e portare a termine i propri compiti utilizzando le proprie risorse.
  • Tenere un “Diario dei Successi”: uno speciale quaderno ove riportare quotidianamente i propri successi. Settimanalmente è anche utile rispondere per iscritto alla domanda: “Cosa ho raggiunto di positivo e con le mie forze questa settimana?”


Se il ruolo abituale è quello di Persecutore, si può trarre beneficio da:

  • Esprimere chiaramente i propri desideri e le proprie aspettative. Si ha bisogno di pensare a se stessi come a delle persone sullo stesso livello degli altri. Di conseguenza, si ha bisogno di lavorare sull’approccio con gli altri che dovrà essere saldo e, al contempo, corretto e rispettoso.
  • Esprimere chiaramente le conseguenze rispetto alle azioni altrui e fornire delle opzioni: “Se non ti atterrai al nostro accordo, io non mi considererò più coinvolto. Scegli tu”. Invece di aggredire l’altro da una posizione “up”, è più utile stabilire dei chiari confini comunicandogli i propri desideri e le conseguenze delle sue azioni. 


Se il ruolo abituale è quello di Salvatore, è utile:

  • Stabilire dei confini con la persona in difficoltà, ad esempio stabilendo con chiarezza: “Ti ascolto per quanto riguarda il tuo problema, ma posso dedicarti solo venti minuti”.
  • Inviare il messaggio: “Ci tengo a te e so che hai le capacità di risolvere i tuoi problemi”. A questo scopo è utile assumere la mentalità di un trainer che voglia insegnare a pescare e non fornire direttamente il pesce alla persona (rendendola dipendente).
  • Non fare nulla che l’altra persona non possa fare da sé. Invece di agire al suo posto, è più utile ascoltarla, sostenerla e incoraggiarla ad assumersi le proprie responsabilità, a trovare le proprie soluzioni e a risolvere i propri problemi da sé. La domanda da porsi è:  “Cosa posso fare per aiutare questa persona ad aiutarsi da sé?”. Le domande da porre alla persona in difficoltà, invece, potrebbero essere: “Cosa vorresti che succedesse? Cosa pensi di poter fare per risolvere il problema?”.

 
In genere è difficile lasciare andare i ruoli e – di conseguenza – i “giochi” che utilizziamo di solito. Questo perché ruoli e “giochi”, oltre a rappresentare una fonte stabile di “carezze” (negative, ma è meglio che niente ...), tendono a definire la nostra identità. In altre parole, le persone fanno fatica ad allontanarsene perché temono di rinunciare ad una parte importante di se stesse.
 
Il processo di presa di consapevolezza e di acquisizione di nuove e migliori strategie è spesso lento, passando per prese di coscienza graduali. Non è ragionevole quindi aspettarsi guarigioni istantanee o “conversioni sulla via di Damasco”.
 
 


Il cambiamento è graduale


 
 
Buon lavoro!


 


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